Intervista a Christian Tissier Shihan (2008)

di Guillaume Erard ed Ivan Bel

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Era un po’ che provavo ad intervistare Christian Tissier (Shihan, 7° dan Aikikai), responsabile nazionale della Federazione Francese di Aikido (FFAAA), ma senza molto successo, devo ammettere. Ogni volta i nostri impegni non si coordinavano e durante gli stage non abbiamo mai trovato il tempo di sederci tranquilli per fare un’intervista. Finalmente, grazie alla sua buona volontà e gentilezza, la cosa è diventata possibile.

Dopo una lezione mattutina molto dinamica, siamo andati a pranzo con Christian ed alcuni membri dell’AFA in una bella brasserie di Bruxelles. Abbiamo avuto una conversazione molto informale ed i due shihan del giorno (Christian Tissier aveva appena consegnato quella mattina stessa il titolo a Dany Leclerre per conto del Doshu Moriteru Ueshiba) si sono scambiati diversi aneddoti divertenti su i loro molti anni di pratica.

Siamo poi rientrati per la lezione pomeridiana e più tardi, in serata, io ed Ivan (il mio collega di Aikidoka Magazine) abbiamo incontrato il Maestro nel suo spogliatoio per fargli finalmente tutte le domande che da tanto tempo ci eravamo preparati. Guardandoci con i suoi intensi occhi blu ci ha offerto la sua attenzione completa per più di un’ora (a momenti dimenticava di prendere l’aereo del ritorno…). Ha risposto con molta precisione e disarmante sincerità alle nostre domande, il che ha reso l’intervista molto piacevole ed interessante. Per la maggior parte abbiamo parlato delle caratteristiche del suo insegnamento così come dell’organizzazione ed il funzionamento dell’Aikido.

Vorrei ringraziare in particolare Dany Leclerre Shihan, François Warlet e Paul Van Lierde della Association Francophone d’Aïkido per il loro aiuto e per il caldo benvenuto in Belgio.


Guillaume Erard: Piuttosto che parlare ancora una volta della sua gioventù e degli anni in Giappone, vorremmo approfondire un po’ di più il discorso della sua pratica. Quando la si vede eseguire una tecnica di Aikido, l’ampiezza e la grazia dei suoi movimenti sono la prima cosa che colpisce. L’estetica è una parte importante della sua ricerca?

Christian Tissier: No, in Aikido cerchiamo di raggiungere la purezza attraverso il gesto a dispetto della costrizione fisica rappresentata dal nostro partner/avversario. Di conseguenza, nel momento in cui questo conflitto sta per essere risolto, tenendo presente la ricerca della precisione, della posizione e dell’economia del gesto, il movimento sarà più vicino alla purezza. Se è puro, allora è naturale e quindi bello. Come vedi l’estetica non è lo scopo. L’Aikido è una disciplina marziale ma è anche un’arte e quindi, se usiamo il corpo in questa prospettiva, dobbiamo lavorare sulla purezza del gesto. L’estetica è solo il risultato finale di questo lavoro.

Ivan Bel.: Quando pratica, sembra totalmente rilassato. Infatti, durante lo stage che ha appena condotto, ha mostrato che se si è bloccati da un uke, possiamo conservare questo stato di rilassamento semplicemente effettuando un altro tipo movimento.

C.T.: questo non è esattamente vero. La mia concezione di un’arte marzialeè che se c’è un blocco, non dovremmo dire “non posso farcela, perciò cambio tecnica”. In realtà, cerco di fare la cosa opposta: se c’è una difficoltà non cerco di evitarla, ma cerco di trovare una soluzione cambiando angolo o postura, non tecnica. Era questo che cercavo di mostrarvi durante lo stage, in particolare sul kotegaeshi. Molto spesso su questa tecnica capita di trovatci al punto di non poterla più proseguire per diverse ragioni. Se capita di non poterla proseguire, significa che siamo alla fine dell’azione, inutile tentare, e ne deve partire un’altra di conseguenza, non dobbiamo cercare di evitare il contatto. Per rispondere alla tua domanda sullo stato di rilassamento, uno degli scopi del Budo è la soppressione delle paure. Voler diventare più forte di chiunque altro non ha senso. Dovremmo solo lavorare al superamento delle nostre apprensioni. Ed è per questo che il sistema didattico che mettiamo in piedi durante uno stage di Aikido ha l’obiettivo di sopprimere situazioni di rifiuto, di esclusione e di non comunicazione. Più sopprimiamo queste paure, più troveremo facile andare verso gli altri, ma non significa assolutamente che diventeremo invincibili. Nella mia opinione, una tecnica ben allenata, pura, ci permette di lavorare su noi stessi ed innescare una semplice comunicazione attraverso il movimento. Il rilassamento deriva da questo.

G.E.: A proposito di comunicazione, lei pone un’enfasi particolare sulla relazione che deve esistere tra Tori ed Uke, dove entrambi devono fare del loro meglio per aiutare l’altro a migliorare. Spesso questa cosa è vista come una sorta di complicità.

C.T.: Vederla in questo modo è indice di una cattiva interpretazione di questa relazione. Non può esistere nessun sistema didattico senza codici. Se decidiamo di giocare insieme a tennis io non mi presenterò con una mazza da baseball, altrimenti sarebbe molto difficile giocare insieme. Qualunque sia il sistema, si dovranno definire dei codici.

Noi vestiamo dei keikogi bianchi: questo è un codice; pratichiamo su un tatami: questo è un altro codice. Poi decideremo di fare un katatedori da una posizione statica: questo è ancora un altro codice, non c’è alcuna azione. Noi non tiriamo, ne’ spingiamo, lasciamo che il partner esegua la sua tecnica. Stabiliamo i codici all’inizio e da essi organizziamo la struttura della tecnica.

Naturalmente all’inizio non ci sarà quasi alcuna sensazione, probabilmente. Ad esempio, parleremo di tenkan legato al centro, ma agli inizi vedremo solo un movimento di rotazione e forse l’idea dei due partner che guardano nella stessa direzione, ma nessuna connessione in realtà. Comunque, Se lavorate con un Uke migliore di voi, vi metterà in una situazione in cui potrete capire cosa state cercando. Alla fine della giornata, quello che mi interessa di più è essere capace di praticare con gente con codici diversi dai miei e far funzionare le cose comunque! E’ proprio per questo che mi piace praticare con persone che non conosco, principianti, gente alta, gente grossa, karateka, judoka e via dicendo. Mi piace praticare con chiunque perché la cosa dimostra che la tecnica funziona anche senza codici.

Ci sono dei sistemi didattici, naturalmente, che sono totalmente diversi dal mio. Alcuni sono molto rigidi e precisi e a volte così fissati sui loro codici da non riuscire a liberarsene. Questo è un peccato…

Stage di Dublino, giugno 2007

I.B..: Ci viene spesso detto che l’Aikido si basa su due grandi principi: irimi e tenkan. Guardando lei sembra che enfatizzi più quest’ultimo con grandi movimenti a spirale. E’ una sua scelta o semplicemente una cosa che va bene per la sua struttura fisica?

C.T.: Francamente mi sembra di praticare di più un Aikido fatto di irimi. la confusione può derivare dal fatto che non abbiamo la stessa nozione di irimi. Irimi non è colpire il partner al volto ogni volta che si muove o lascia un’apertura. Per me irimi è entrare al centro del movimento. La mia sensibilità in termini di pratica viene molto dal Kenjutsu (Kashima Shin Ryu) in cui questo tipo di lavoro è molto diretto. Poi dipende anche dalla definizione che ognuno di noi può dare di irimi e tenkan, ma in realtà credo che sia fisicamente che mentalmente il mio Aikido sia più irimi che tenkan. A proposito della spirale, anch’essa è un movimento di irimi. La spirale ha un centro, quindi ogni volta che cercheremo la posizione ideale intorno a cui ruotare, prenderemo velocità e ci sposteremo verso il centro. Alla fine entreremo verso il partner. In quel particolare momento siamo totalmente in irimi!

tissier1G.E.: Lei spesso dice che l’Aikido è un sistema educativo  basato sulla disciplina marziale. Secondo lei cosa si sviluppa in una persona attraverso la pratica di questa disciplina?

C.T.: Beh, questo può variare molto a seconda dell’individuo, ma se parliamo di Aikido in termini di sistema didattico non dobbiamo dimenticarci dell’inquadratura marziale. L’aspetto marziale è stato da noi scelto intenzionalmente. Avremmo potuto scegliere la pittura, la scultura, lo Zen e molte altre cose. Quello che a volte spinge la gente verso le arti marziali è il gusto del combattimento e del confronto. In una disciplina marziale ci sono le nozioni intrinseche di costrizione e sanzione. Il nostro sistema didattico, che ha come scopo quello di farci progredire come esseri umani, è basato su tale contesto marziale. Ogni errore andrebbe sanzionato, dall’insegnante o dall’impossibilità di eseguire la tecnica, ma dato che siamo sulla materassina, abbiamo anche la possibilità di ricominciare. Dobbiamo approfittarne, non ripetere lo stesso errore, ma ricominciare con un movimento in cui quel particolare errore venga eliminato.

Non sono d’accordo con chi dice che progredire significa fare meglio. Per me progredire significa fare sempre meno errori, perfezionare i nostri movimenti senza presentare aperture. L’essenza del Budo è l’assenza di aperture, waki ga nai, che significa non lasciare aperture sia nelle nostre azioni che nelle nostre parole. In uno dei miei libri ho riportato la seguente citazione da una scuola di etichetta chiamata Ogasawara. Sull’ingresso principale di questa scuola è scritto: “Quando siete correttamente seduti nella posizione giusta anche la persona più rude non vi può disturbare”.

E’ il nostro comportamento che ci permette di non lasciare aperture. L’educazione marziale offre ciò che io chiamo “costanti della Via”, che sono l’attitudine, la gestione della distanza e la visione. Queste tre costanti lavorano assieme. Non è una cosa difficile da mettere in pratica, possiamo già dire che siamo in presenza di un’arte marziale, ma ancora non accade nulla: non siamo ancora nel movimento. Per entrarvi dobbiamo richiamare un altro principio naturale, la tecnica. Perché è un principio naturale? Perché sin dall’inizio la gente sviluppava tecniche per poter eseguire compiti in modo più facile ed efficiente. Il concetto di tecnica non può non prendere in considerazione gli altri concetti naturali. La tecnica quindi, è solo qualcosa che si aggiunge da sé. Una tecnica ben eseguita crea un’economia del movimento e dell’energia. Anche il principio dell’economia è un principio naturale. E’ questo che dovremmo cercare di raggiungere. In cima a tutto questo si possono aggiungere principi come la comunicazione, la ricerca della purezza, ecc. Penso davvero che ci siano dei principi di Aikido che non sono stati ancora scoperti, ma che ciononostante sono naturali e dovranno essere inseriti nel nostro sistema didattico per migliorarlo.

I.B.: A proposito di principi naturali, noi spesso sentiamo parlare di Ki, il flusso di energia. Lei non ne parla spesso però…

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C.T.: E’ vero, non lo faccio. La ragione è che si tratta di un concetto che può confondere molto. Ho visto molte cose in Aikido, ho incontrato diversi Maestri e devo dire che quelli che ne parlano sono spesso quelli che hanno meno tecnica. Naturalmente non è vero per tutti, ma il Ki non è tangibile. Il Ki è dentro di noi. C’è Ki ovunque, che lo sappiamo come usare oppure no. Il punto fondamentale del Ki è il flusso. In termini di vocabolario di Aikido abbiamo Ki e Kokyu, che è il veicolo del Ki. La traduzione di Kokyu è “respiro”, ma se vogliamo essere più accurati in realtà il Kokyu è lo scambio tra i due.

Il punto è che se pratichi con le spalle rigide fino alle orecchie il Ki non fluisce, te lo può dire qualunque praticante di agopuntura. Di conseguenza, finché la tecnica non è perfetta, non ci sarà Ki, nessun flusso naturale. Secondo me le persone che hanno davvero Ki non lo sentono perché tutto gli viene naturale.

Possiamo certamente sviluppare esercizi come quelli proposti dal Qigong per lavorare specificamente sul respiro. Potremmo anche lavorare specificamente sulla flessibilità o altre cose, ma a quale fine? Io considero l’Aikido come un sistema completo che è stato ben congegnato. Quindi è inutile cercare di concentrarsi solo su un aspetto dell’arte, in particolare se a spese del tempo di pratica. Se dobbiamo lavorare specificamente sulla flessibilità possiamo andare da uno specialista, lo stesso per la respirazione, ma non dovremmo mischiare il tutto. Per tornare al Ki, preferisco non dire molto perché penso che i discorsi su questo argomento possano essere spesso fraintesi.

I.B.: Quindi la sua scelta è di focalizzarsi solo sulla tecnica.

C.T: Si, perché la tecnica sbloccherà il vostro corpo! Una volta ottenuto questo e rimosse tutte le paure, il gesto sarà fluido e permetterà più Kokyu. Se si aggiunge un’intenzione a questo Kokyu il Ki verrà naturalmente.

G.E.: Come tutti sanno, lei ha avuto un legame molto forte con il Maestro Yamaguchi; comunque lei ha sviluppato uno stile molto differente dal suo, almeno in apparenza.

C.T.: Infatti, ci sono due Maestri che hanno avuto una grossa influenza sulla mia pratica. Il secondo Doshu (Kisshomaru Ueshiba) è stato per me un modello importante, in particolare per le tecniche di base. Devo anche molto tecnicamente al Maestro Yamaguchi, naturalmente, ma anche per molte altre cose come la libertà, l’applicazione ed il rigore. Io e lui abbiamo avuto una sorta di relazione padre-figlio, al punto tale che alla fine della sua vita volle comprare una casa nel sud della Francia per poter vivere vicino a me.

Per rispondere alla tua domanda, non so se faccio le cose come lui o meno, non è il mio scopo come insegnante. Infatti lui non voleva che fossimo schiavi della sua tecnica e probabilmente non sarebbe stato contento se io fossi diventato un suo clone. Più che altro ho integrato i principi che mi ha trasmesso.

Christian Tissier uke con il Maestro Seigo Yamaguchi

G.E.: A volte si sente parlare di una dicotomia dell’Aikido di prima e dopo la guerra. Se l’Aikido si è evoluto, lei è stato uno dei maggiori attori di questo processo in Francia e all’estero. Nella sua opinione, cos’è cambiato nell’Aikido?

C.T.: Trovo questa domanda piuttosto divertente, perché quando sono tornato dal Giappone la gente diceva che quello che facevo era diverso. Il fatto è che ero appena tornato dopo sette anni passati all’Aikikai. Dalla mia prospettiva, erano quelli restati in Francia a fare qualcosa di diverso. Io stavo solo ripetendo quello che avevo imparato all’Hombu Dojo, non inventavo le tecniche. All’età di 24 anni ero conosciuto come uno studente molto vicino al Doshu e molto legato al Maestro Yamaguchi, quindi non credo di essere stato l’attore di un cambiamento nella pratica dell’Aikido. Non si dovrebbe confondere quello che l’Aikido è con quello che veniva in realtà praticato all’Aikikai.

Quando arrivai in Giappone ero un secondo dan del Maestro Nakazono ed ero stato a tutti i corsi del Maestro Tamura, quindi pensavo di essere ad un buon livello. Una volta entrato nell’Hombu Dojo ho visto il Doshu e davvero mi sono chiesto cosa stesse facendo. Era molto diverso e tutte le mie certezze dovettero essere sfidate e corrette. Infatti devo dire che all’inizio quando incontrai il Doshu non mi piaceva quello che vedevo, pensavo che incespicasse. Ovviamente mi sbagliavo; conoscevo solo quello a cui ero abituato. Queste discrepanze tra quello che pensiamo di conoscere e quello che è, sono ciò che ci porta a pensare che c’è stata un’evoluzione.

tissier3Comunque è vero che esiste una sorta di evoluzione al momento: è l’voluzione di un insegnante nel corso della la sua vita. Mi ricordo del Maestro Miyamoto a quel tempo, in Giappone; praticava solo per distruggere il partner. Nessuno eccetto il gruppo di cui facevo parte voleva allenarsi con lui. Oggi è un uomo affascinante che si prende cura dei sui Uke sul tatami ma, naturalmente ha 60 anni adesso. E’ cambiato, come tutti. Quello che voglio dire è che quando hai 20 anni si vede anche sul tatami, ma bisogna pure accettare che si cambia nella pratica, nello status e nell’età.

Per finire, ovviamente l’Aikido, come ogni altra disciplina, ha avuto un’evoluzione. Se confrontiamo gli Uke degli inizi con quelli odierni, la differenza è significativa. E’ facile spiegarlo perché gli Uke degli inizi erano tutti judoka. Oggi i praticanti si muovono più liberamente, spontaneamente, più velocemente, quindi le tecniche non sono più come quelle di una volta. Cercherò di spiegarti cosa intendo. Quando ero un ragazzo, anche un karateka mediocre poteva portare un mawashi geri al volto dell’avversario e lasciarci in ammirazione. Oggi i ragazzini sono abituati a videogames e film in cui vedono un tizio che gira su se stesso sei volte prima di calciare. Quindi è più difficile impressionare i giovani, vivono in una mondo di fantasia riguardo le arti marziali che non è più aderente alla realtà. Anche l’immaginazione è cambiata, come pure i concetti di tecnica ed applicazione. Tutto ciò è normale e l’Aikido cambia seguendo questo principio.

Non possiamo dire che l’Aikido è fisso; cambia costantemente, grazie al cielo, altrimenti, se gli studenti non diventassero migliori dei maestri, in 50 anni non ci sarebbe più nessun Aikido. Quello che non cambia sono i princìpi.

I.B.: A proposito delle fantasie con cui hanno a che fare i ragazzi che giocano con i videogames, pensa che ci sia un gap con le nuove generazioni in termini di attitudini e valori?

C.T.: Francamente non lo so. Forse è vero, ma penso che i giovani che si avvicinano all’Aikido capiscano la differenza. Per cominciare, accettano un sacco di regole che non accetterebbero necessariamente a casa o altrove. Poi rispettano l’etichetta, la vita in comune e vengono ad allenarsi regolarmente. Forse a loro sembriamo dei dinosauri, ma ciò che è più importante è il comportamento che teniamo noi stessi e l’esempio che diamo loro. Se, come insegnanti, siamo capaci di riconoscere un ragazzo di talento, essi sono a loro volta capaci di capire se siamo un modello, se abbiamo l’autorità naturale o se siamo solo dei poveracci. Nella mia opinione, la chiave per il successo è essere capaci di lasciare un messaggio ai giovani senza doversi comportare da giovani a nostra volta.

Dobbiamo essere onesti e diretti, questo è tutto. In termini di pratica, è sbagliato credere che i ragazzi non vogliano fare sforzi e sacrifici. Un ragazzo che pratica seriamente il tektonik o la brake dance deve metterci lo stesso impegno di uno che pratica Aikido. Sono entrambe altrettanto difficili!

I.B.: Adesso parliamo un po’ di politica. Lei ha appena consegnato il titolo di Shihan, rarissimo un non-giapponese, al suo amico Dany Leclerre (7° dan belga). Lei è stato il primo non-giapponese a ricevere questa onoreficenza. Le torna in mente qualcosa?

C.T.: Beh, la verità è che per me le cose non sono state così semplici. Quando ero 6° dan, niente era formalizzato; a volte ricevevo lettere, sia dall’Aikikai che dal Mestro Endo, in cui venivo chiamato “Tissier Shihan”, ma non era chiaro, visto che a quel tempo il titolo non veniva riconosciuto ufficialmente. Dopo un po’ sono cominciate le polemiche per un articolo pubblicato su Aikido Today (la rivista americana edita da Susan Perry tra il 1983 ed il 2005, uscita solo per 100 numeri) dove il Maestro Saotome e altri Shihan davano la loro opinione sull’argomento. Da allora l’Aikikai decise di chiarire le cose riconoscendo il titolo ufficialmente.

Il titolo di Shihan è dato sia in riferimento ad una nazione che a un individuo. Oggi è stato riconosciuto al Belgio attraverso Dany Leclerre, una specie di gesto di ringraziamento per tutto quello che ha fatto per l’Aikido, ma anche per assicurarsi che tutti sappiano che è lui la persona in carica per trasmettere l’Aikido nel suo paese. Ma ciò non significa che potrà dare gradi in tutto il mondo. Altri possono farlo, ogni caso è differente. E’ ancora un affare piuttosto complicato…

tissier4G.E.: Per quel che ne sappiamo, ci sono solo circa 15 Shihan non giapponesi ufficialmente riconosciuti dall’Aikikai, molto pochi. E’ perché i giapponesi sono ancora piuttosto protezionisti?

C.T.: E’ vero, sono molto pochi. Naturalmente i Giapponesi sono protezionisti, verso l’Aikikai in prima istanza. Tutti sanno che c’è bisogno di aspettare un po’ di tempo tra un grado dan e l’altro. Questa regola si applica a tutto il mondo tranne che agli uchi-deshi giapponesi dell’Hombu Dojo (gli studenti che vivono all’interno del dojo)… Queste persone sono della casa, quindi appena cominciano a viaggiare vengono promossi velocemente. Comunque è parte del gioco, e si sa chi è chi, quindi non è che ci siano delle vere sorprese con questo sistema. Ognuno sa quanto vale e loro sanno cosa aspettarsi dai maestri non giapponesi.

I.B.: Con il livello tecnico che continua a salire, arriverà un momento in cui non avremo più bisogno dei giapponesi?

C.T.: Si, adesso possiamo anche fare a meno del Giappone, almeno quanto il Giappone può fare a meno di noi. Comunque penso sia molto importante non sottovalutare l’interazione che esiste tra i due. Per esempio, il Giappone proprio non potrebbe fare a meno di noi per quel che riguarda la diffusione dell’Aikido, ad esempio per le organizzazioni nazionali e le federazioni internazionali che danno loro credibilità oltre frontiera. E’ anche importante capire che un Sensei in Giappone è conosciuto solo all’interno del dojo e tra i suoi studenti. Non pensate che questa gente tenga seminari per 300 persone, neanche lontanamente. Devono venire in Europa per vedere queste cose. Per un giovane insegnante sulla cinquantina venire in Europa significa accrescere notevolmente la sua credibilità. A livello tecnico siamo altrettanto competenti sia in Europa che negli Stati Uniti per l’insegnamento dell’Aikido, ma non credo sia sempre interessante tornare alle origini, dato che l’insegnamento era diverso. Quel che manca ai giapponesi è l’analisi sistematica dell’Aikido. Grazie al cielo non sono tutti così, ma in generale la pedagogia non è il loro punto di forza! Se chiedete il perché una tecnica sia da fare in un certo modo, essi risponderanno semplicemente “perché è così”. Questa è la risposta tipica che si ottiene in Giappone. Di conseguenza un Maestro Giapponese 8° dan potrebbe anche non passare il Brevetto di Stato francese. Ne ho spesso discusso col Maestro Endo. Anche se è il mio Sempai, spesso mi chiede se una certa tecnica esista o meno anche in ura. La nostra logica pragmatica ed il nostro senso di analisi ci hano permesso di destrutturare molto presto le tecniche e di classificarle. Portiamo molto ai giapponesi da questo punto di vista.

D’altro canto, non abbiamo la stessa cultura e neanche lo stesso modo di affrontare i problemi. I giapponesi ti permettono di metterti spesso in dubbio su cose molto sottili e questo è un gran modo di progredire. Il giapponese ti mette dubbi perché ti obbliga a riconsiderare quello che sai.

Per riassumere, si, potremmo fare a meno del Giappone ma entrambi perderemmo molto.

tissier5G.E.: Parliamo della FFAAA (la Federazione Francese di Aikido). Non tutti sanno quale sia la sua posizione all’interno dell’organizzazione. Alcuni dicono che sia lei il capo. Qual’è esattamente il suo ruolo?

C.T.: Per essere assolutamente chiari, ci sono io all’origine della FFAAA, ho anche scelto il nome. Senza di me non esisterebbe. Detto questo, non avevo realmente intenzione di crearla e non ne sono poi così orgoglioso. E’ successo più che altro per le circostanze dell’epoca. Allora l’Aikido era parte della federazione di Judo (FFJDA). Feci una riunione con il Maestro Tamura a casa mia e mentre mangiavamo mi chiese “Se lasciamo la FFJDA mi seguiresti?” All’inizio ero completamente d’accordo, ma presto capii che era difatti una manovra politica con dei punti molto discutibili.

Alla fine non li seguii, ma non fu per andare contro qualcuno. Era il modo in cui era successo che mi dava fastidio. Penso che la separazione dalla FFJDA fosse stata uno sbaglio. Avevamo molti vantaggi a restare con loro, in termini di impianti, ed alla fine avremmo ottenuto comunque la nostra indipendenza, come avvenne per Karate nella FFKAMA (la Federazione Francese di Karate) e per il Taekwondo poi. Dovevamo solo crescere serenamente e prenderci la nostra indipendenza in modo naturale. Dopo la separazione sono finito più o meno da solo. I giovani insegnanti che mi seguivano, come Philippe Gouttard, avevano solo il 3° dan. Eravamo davvero una federazione di ragazzini (ride). Era il 1982 ed anche se non ero poi così male tecnicamente, avevo solo 31 anni. Altre persone a cui non era piaciuto come erano andate le cose restarono con me, come Paul Muller o Louis Clériot, tra gli altri. Quindi chiamammo Jacques Abel e strutturammo la federazione. Pierre Guichard, che era il direttore tecnico nazionale del Judo ed il successore di Courtine, venne a chiedermi se volevo diventare il direttore tecnico nazionale dell’Aikido. Era un’offerta molto grande, un incarico ministeriale. Per rispetto verso le persone che erano rimaste con me decisi di rifiutare. Forse mi sbagliai. Sono a capo della federazione solo perché tutti i direttori tecnici regionali eccetto 7 od 8 vengono dal mio dojo. Quindi sono il leader, ma solo per questo fatto. Non ho mai preteso uno status ufficiale. In effetti qualcuno me ne dà la colpa perché di conseguenza non c’è una vera gerarchia nella federazione. Semplicemente, è così che è; magari un giorno cambierà. Questo sistema non mi dà per nulla fastidio. Il mio vero ruolo è di rappresentare la federazione a livello internazionale e comunque non ho nessun incarico ufficiale neanche per questo. Oh si, scusa, une ce l’ho, sono membro del collegio tecnico, ma non ci vado mai (ride). Probabilmente mi vedono come una specie di rinnegato, non molto facile da gestire.

Bercy 2008

I.B.: Sorprende molto sentirle dire questo!

C.T.: Ma è la verità! Se volessi davvero avere del potere sarebbe facile, mi basterebbe andare alla direzione della FFAAA e chiedere di diventarne il capo, altrimenti andrei via. Questo creerebbe un problema naturalmente.

tissier6G.E.: Concludiamo con una domanda tradizionale: ha un messaggio per i lettori?

C.T.: In realtà ce l’ho. Abbiamo appena parlato delle due federazioni. Secondo me, è una vergogna che ci siano due federazioni in Francia, in particolare due federazioni che non vanno troppo d’accordo. Comunque dovremmo sentirci fortunati, ce ne sono solo due! In molti paesi ce ne sono 7 od 8. Sto per andare in Israele e mi hanno detto che lì ci sono 27 gruppi diversi per un numero molto piccolo di praticanti. Come vedi, potrebbe andare molto peggio.

Vorrei che le cose fossero chiare. Ho sempre avuto il massimo rispetto per il Maestro Tamura e penso che lui lo sappia. E’ un grande Maestro e merita completamente il riconoscimento che ha. In futuro mi piacerebbe una maggiore connessione tra i due gruppi. Anche se le tecniche e la concezione dei gradi sono diversi, dobbiamo ricordarci che tutti noi stiamo praticando Aikido e condividiamo gli stessi principi. Dobbiamo imparare ad andare d’accordo.

Personalmente, a volte mi sento più vicino a gente della FFAB (l’altra federazione francese di Aikido) che a certi della mia. Al momento le cose sono quelle che sono e stiamo facendo del nostro meglio per portare avanti il sistema a due. Se guidassi la FFAAA probabilmente mi comporterei in modo diverso, ma non prevedo di farlo nel prossimo futuro. Dobbiamo quindi mostrare una buona volontà in modo da poter comunicare meglio, per consentire così ai praticanti di apprezzarsi di più l’un l’altro.

G.E.-I.B.: Grazie mille, Sensei, faccia un buon volo e a rivederci presto sul tatami.

C.T: Piacere mio.


Ringraziamenti: Guillame Erard

Articolo di Guillaume Erard pubblicato in inglese su GuillaumeErard.com

Traduzione dall’inglese a cura di Pasquale Robustini

Approfondimenti: pagina web di Christian Tissier