Dieci anni, sono passati dieci anni…

Brooklyn Bridge, Jan 2005Il grosso pick up blu della Ford brontolava, fermo nella fila di luci rosse lungo la U.S. 1, transennata e ridotta ad una corsia. Che c’erano i lavori me l’avevano detto, lo sapevo, ma già ero partito in ritardo dall’ufficio e non me la sentivo di tentare una strada alternativa visto che non ero pratico della zona. Il tempo previsto da Norwood, New Jersey, per raggiungere Jersey City, la sorella di New York oltre fiume, era di 45 minuti senza traffico ed io correvo sempre il rischio di sbagliami. In più era il 2 dicembre, un giovedì, ma qui come a Roma l’avvicinarsi del periodo natalizio si vede anche dal traffico. Era solo un mese che cercavo di districarmi tra le strade delle contee a cavallo del confine tra lo stato di New York e quello del New Jersey. E mi perdevo sempre, immancabilmente. C’era qualcosa nella segnaletica USA che mi confondeva. Forse erano i cartelli con il nome della strada che erano appesi, ben visibili, in corrispondenza dell’incrocio: designano la strada che si sta per incrociare, io invece ero portato, forse per abitudine europea, a pensare che fosse il nome della strada che stavo percorrendo – con conseguenze facilmente immaginabili…

Dieci anni fa non avevo certo uno smartphone, né un navigatore. Prima di mettermi al volante stampavo dei fogli del percorso calcolato su Mapquest, a varie scale, a vario dettaglio. Ma spesso, una volta per strada, scoprivo che mancava proprio quel dettaglio che mi avrebbe impedito di ritrovarmi in un posto sperduto o, tipicamente, ad attraversare un ponte dalle dimensioni impressionanti, di quelli che ti mettono soggezione alla sola vista del primo pilone, immenso, di cemento o metallo, che lo appoggia al terreno come la zampa di un dinosauro di dimensioni inconcepibili. Quando accadeva nelle ore notturne, la cosa mi faceva sentire immensamente piccolo, non solo sperduto, ma anche minuscolo e vulnerabile, nonostante il gigantesco furgone pick-up, il grosso “truck” celeste della Ford, di cui ero dotato (e che per altro contribuiva ad un notevole effetto “macho”). Ma il 4×4 da vero uomo non mi faceva sentire meno piccolo ed insignificante rispetto alle dimensioni, che la mia mente immaginava, incontrollata, del continente che stavo calcando. Attraversare un ponte sospeso, al buio, senza sapere se sotto c’è ancora terra o acqua e soprattutto senza sapere dove diavolo stessi andando, mi ha sempre messo addosso una certa ansia.

dsc00071Ed ecco che accade ancora. Dove ho sbagliato? Dovevo girare a sinistra o no? In trappola ancora una volta, su uno di questi dannati ponti bui che devi necessariamente attraversare completamente, prima di poter sperare di ritrovare la strada per tornare indietro riattraversandoli di nuovo. Il bello è che sono fuori dalle mie mappe e non ho la minima idea di che ponte si tratti e dove porti. Non verso Manhattan, le cui inconfondibili luci intravvedo alle mie spalle nello specchietto retrovisore. La mia mente forma immagini scure e minacciose dell’immenso continente americano che si profila difronte al muso del mio muscoloso pick-up. Ed il ritardo si accumula. Probabilmente ero finito, seguendo la U.S. 1, sulla Pulasky Skyway che attraversa lo Hackensack River e che mi avrebbe portato (ma non lo sapevo) verso l’aeroporto di Newark, quello del mio primo atterraggio a New York poco più quattro anni prima.

Ecco, sono pure in riserva, ci manca solo che rimango per strada chissà dove e poi chi li sente più in ufficio!? Già sono famoso per averci messo due ore dall’albergo il primo giorno di lavoro. L’azienda mi ha sistemato in un Best Western Hotel poche miglia a nord, appena oltre il confine con lo stato di New York, lungo il fiume Hudson, in una cittadina dal nome Nyack. Mi sarebbe bastato seguire il fiume sulla 9W verso sud, poi svoltare a sinistra sulla 303 e proseguire fino a Norwood. No. Invece sbaglio subito strada e mi ritrovo su di un ponte che attraversa l’Hudson, lo spettacolare Tappan Zee Bridge, con la sua forma ad S, che porta la Interstate 87 giù dal Canada verso Manhattan. Mi ero ritrovato così appena a sud delle deliziose cittadine di Terrytown e Sleepy Hollow, avevo pagato il pedaggio ed ero tornato dall’altra parte del fiume. Avrò fatto avanti e dietro dieci volte per la Palisades Parkway e la 9W, che scorrono intrecciandosi lungo l’Hudson, alla ricerca della traversa giusta da prendere per andare in ufficio, passando almeno due volte davanti al celebre Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University, che sapevo essere vicino. A forza di chiedere indicazioni, in due ore totali arrivai. Poi imparai la strada: 15-20 minuti…

dsc01094Il bello era che la sera prima, quando dall’ufficio ero andato per la prima volta da solo a “misurare le maree” lungo la costa atlantica del New Jersey, a Perth Amboy e South Amboy, dove i fiumi Hudson e Raritan sfociano assieme nella Baia di New York, appena a sud di Staten Island, mi avevano pure prestato un cellulare, conoscendo la mia fama. Ed immancabilmente mi ero perso. Ero sulla giusta strada quando ripercorrevo verso nord la New Jersey Turnpike, ossia la Interstate 95 (ecco un altro motivo di confusione, le strade hanno due nomi!), con cui avrei raggiunto Fort Lee, da dove la Palisades Parkway mi avrebbe portato dritto in albergo. Invece Fort Lee aveva degli incroci così confusionari (almeno per me) che ci avrei messo un altro mese prima di imparare a conoscerli e non sbagliarmi più. E mi ritrovai su un immenso ponte a due piani, di notte (ovviamente la piano di sotto) ed al casello mi resi conto: stavo entrando a New York, era il Washington Bridge. Chiesi alla ragazza del pedaggio come fare a raggiungere Nyack e lei mi disse “straight on the 95”. Come no. La 95, che porta fino in Canada lungo l’Atlantico, mi avrebbe fatto attraversare il Bronx, io dovevo tornare indietro. Usai il telefono del collega che mi disse come fare. Non ricordo come feci, forse presi la 87 verso nord, fino al Tappan Zee Bridge e poi attraverso l’Hudson a Nyack – mezzanotte. Non sapevo che la mattina dopo l’avrei riattraversato sbagliando ancora.

dsc00048Ma oggi no. Oggi non dovevo sbagliare, dannazione! Che penserà di me? Mi ha visto solo una volta a Roma, pochi giorni prima che partissi, a una festa in un locale del Testaccio un mese e mezzo fa. Sì, ci siamo sentiti per telefono, ci siamo scritti tante email e ci siamo conosciuti meglio, ma non mi ricordo neanche bene come è. Che figura ci faccio arrivando pure in ritardo al suo albergo? Per fortuna trovo una stazione di servizio appena riesco a riprendere il “ponte nero” in senso opposto e tiro un sospiro di sollievo: chiederò informazioni al benzinaio. Era un immigrato di origine araba ma conosceva la zona e sapeva pure dove era il Courtyard Marriott Hotel. Memorizzo le sue spiegazioni ed in un batter d’occhio sono a Jersey City, ma purtroppo non ancora dentro una delle mie cartine stampate in ufficio. Ero in una zona che si chiama Newport, collegata a South Manhattan con lo Holland Tunnel, lungo un miglio sotto il fiume Hudson. E’ un dedalo di strade a senso unico che si incrociano a novanta gradi, tutte numerate. Devo trovare la Washington Boulevard. Mi muovo a casaccio: basta trovarmi su una strada che è dentro la mappa che ho stampato e sono a cavallo. Ci sono, ci ho messo un po’ ma finalmente la prima strada che ho sulla cartina mi basta a ricostruire il percorso per Washington Boulevard. Ecco il Marriott. Sarò in ritardo di un’ora e mezza! Lascio il furgone nel parcheggio dell’hotel, ci penserò dopo, e mi avvio verso l’entrata senza più riflettere, ormai. Le porte automatiche si aprono e mi sembra di riconoscere un viso, avvolto nei lunghi capelli neri e mossi, quasi ricci; deve essere lei, è lei – guarda proprio me. “Ciao! Sei in ritardo? Ho visto passare un pickup ed ho immaginato…” (i miei racconti avevano reso famoso il “truck” pure oltre oceano). E riconosco anche il sorriso che illumina il suo volto e anche l’intera sala, la notte newyorkese (ancora lunga) e la vita, per quel che mi riguarda. Sì, ricordavo bene, è proprio carina. “Questo è mio padre…” Un distinto signore alto e con l’aria simpatica mi porge la sua manona col sorriso affabile. “Piacere, Astor”. Ricordo di aver pensato: cominciamo bene!