Io e Roma

Dopo 7 anni a vivere fuori, lontano (anche se non troppo) dalla mia città, nel corso del 2012 ero tornato ad essere “cittadino romano”. Ma sono andato via di nuovo già all’inizio del 2014, costretto, si, da precarietà lavorativa e spese esorbitanti, ma anche da caos, sporcizia, inquinamento. In una parola: degrado. Questo degrado l’ho visto crescere, peggiorare di anno in anno. Negli ultimi tempi avevo assistito allo scempio da pendolare. Dopo il lavoro me ne tornavo nelle campagne a nord della città e mi rilassavo, mi ricaricavo.
Quando ero andato via dalla città, abitavo in periferia. Erano più di 20 anni che non vivevo in una zona centrale. Prima avevo abitato, vivendo con i miei, in tre angoli diversi del quartiere Tuscolano. Il ritorno recente era avvenuto nel quartiere della Vittoria, nome emblematico visto che un passo del genere poteva solo essere nei miei sogni anche meno di 10 anni fa.

E poi non sono neanche romano davvero. A Roma ci sono nato, ma la mia famiglia è molisana. Eppure sono sempre stato innamorato della mia città. La definisco così anche se sono romano di prima generazione. Ho sempre pensato a Roma come a una donna: se la ami ne accetti anche i difetti e non la lasci. Ora invece la lascio…
La prima volta l’avevo lasciata per un’altra donna, una di fuori, della provincia adiacente di Viterbo. Infatti scherzo sempre sul fatto che sono un romano di origine sannita che ha sposato un’etrusca. Ma a Roma ho comunque sempre lavorato, facendo il pendolare. Dopo il recente ritorno, per qualche mese sono stato a pochi minuti a piedi dall’ufficio. Quasi mi sentivo in colpa, o meglio, dovevo concentrarmi per riconoscere a me stesso che me lo meritavo. Abituato come sono, mi imbarazzava un po’ l’idea di vivere in un bel quartiere. Ma perché? È solo una abitudine mentale, di quelle che non fanno altro che limitarti, impedirti di raggiungere obbiettivi alla portata, se solo lo sapessi. È un po’ la storia dell’aquila che si crede un pollo, inevitabilmente fa una vita da pollo, non imparerà mai volare se non si rende conto che può farlo benissimo. Lo sono stato a lungo nella vita, ho tanto penato, ma ho anche seminato ed ora raccolgo i frutti.
Da lontano, Roma non mi mancava più di tanto. Apprezzavo la vita di campagna, di provincia. Ma il lavoro era ancora a Roma. Riconoscevo che la vita di città comporta livelli di stress che non ero più disposto a sopportare. Ma quando mi capitava di entrare nel centro storico di Roma sentivo qualcosa. Anni fa mi bastava andar via un fine settimana per sentire una certa emozione solo alla vista del cartello Roma al rientro in città. Eppure l’inquinamento è una realtà, il traffico è insopportabile, il nervosismo e l’aggressività che ne risultano serpeggiano chiaramente. Tutto oggi è enfatizzato dal malessere dovuto alle incertezze in cui viviamo ormai da tempo.
Negli anni in cui ho vissuto fuori, mi si poteva sentir dichiarare che non avrei mai più potuto tornare a vivere in un appartamento, in un palazzo brulicante di persone, famiglie, storie, tutte compresse tra quattro mura e, specialmente, rassegnate ad affrontare ogni giorno la routine del trasporto fino al posto di lavoro. Preferivo metterci un’ora o due (tanto molti romani fanno lo stesso dentro la città), ma rientrare in una bella casetta nel verde, respirare aria pura, rilassarsi alla sola vista della campagna e pensare “io ne sono fuori”. Poi le cose cambiano, arriva un figlio e la distanza comincia a contare. Bello sarebbe stato abitare a 10 minuti dal lavoro, rientrare a pranzo a casa, essere immediatamente disponibili in caso di emergenza. Ma chi se lo può permettere? Pochi fortunati. Un dubbio però si insinuava piano piano nella mia mente. Se vivere a Roma in zona centrale è costoso, quanto lo è il trasporto giornaliero per raggiungere il posto di lavoro dalla periferia o dalle campagne? Spendevo circa 700 euro l’anno di carburante solo per raggiungere la stazione del treno! Se aggiungiamo il mantenimento di una piccola villetta in campagna (giardino, acqua, riscaldamento, tutto più costoso che in città) viene da chiedersi se ne valga davvero la pena! Dipende da cosa si vuole. Se il lavoro è in provincia la cosa ha un senso. Ma se è in città, nel suo centro, potendo vivere a due passi, in una zona con tutti i servizi a tiro di passeggiata, potendo lasciar ferma la macchina per quasi tutti i giorni, non è più riposante? È anche più ecologico! In campagna ogni giorno bisogna usare l’auto per qualunque motivo. Si consumano più carburanti anche per scaldare la casa. Si inquina di più. Paradossalmente, trasferirsi in città (in un certo modo) è più ambientalista. Ma è bastato un anno nel caos e nel fetore: con amarezza, torno sui miei passi, magari non proprio isolato nelle campagne, ma in un piccolo centro abitato, Sacrofano, antico borgo medievale nel Parco di Veio, antico ghetto ebreo, ancora relativamente tranquillo nonostante molti romani abbiano fatto la mia stessa scelta – i miei genitori e mia sorella compresi…
Ma lasciate che rifletta anche sul mio legame storico con Roma, su come la mia famiglia si sia legata ad una capitale amata e odiata. La famiglia di mia madre si è trasferita a Roma negli anni 50. Suo padre sarto, unico dei suoi fratelli maschi a non essere emigrato a New York, aveva ottenuto un lavoro alle Poste e si era trasferito a Roma. Dopo un preludio nel quartiere popolare di Tor Pignattara, si era potuto permettere, forse con l’aiuto del lavoro dei figli più grandi, una casa più centrale, adiacente alla allora signorile Piazza Vittorio, dapprima in affitto in via Conte Verde e poi in un appartamento di proprietà nella parallela via Emanuele Filiberto, che congiunge Piazza Vittorio a Piazza di Porta San Giovanni. Pensare che il mio nonno materno si fosse potuto permettere di comprare casa in centro, dentro le mura, è oggi quasi sconvolgente. Ma Roma doveva ancora cadere nelle mani degli speculatori edilizi, i palazzinari, che avrebbero fatto crescere a dismisura la periferia della Capitale, in modo del tutto disordinato e senza alcuna pianificazione se non quella di fare soldi. Ma a quei tempi, anche un umile sarto molisano, poi semplice impiegato delle Poste, poteva permettersi casa in centro. Mia madre era la quarta di sette figli. I due più grandi erano già sposati e con figli quando il resto della famiglia si è spostato a Roma. Negli anni 50 e 60 la città doveva essere un paradiso! Senza le macchine a soffocarlo, il centro storico era a misura d’uomo e la gente, i romani veri, erano scanzonati ma tendenzialmente buoni di cuore. Altri tempi. Altre persone.
La famiglia di mio padre invece è rimasta in Molise. Lui fu l’unico ad andarsene, come soldato volontario nell’artiglieria, di stanza in vari posti del nord prima di essere forzatamente congedato dopo cinque anni. Al rientro in famiglia conobbe mia madre che era dal fratello primogenito ad aiutare con i bimbi piccoli, casualmente nella stessa palazzina della famiglia di mio padre. Dopo un po’ di lavoretti in giro, mio padre, riluttantemente, fece il concorso in Polizia ed iniziò la carriera nel reparto mobile a Roma. Così i miei si sposarono nella capitale in una chiesetta a metà di via Giolitti nota come Santa Bibiana e vissero lì in zona i primi mesi in un appartamentino ammobiliato nei pressi del teatro Ambra Jovinelli, che allora era un cinema. Dai miei calcoli sarei stato concepito lì. Venni alla luce nell’afa di un pomeriggio di agosto 1964 in una clinica di via Garigliano, a due passi dall’allora famosissimo Piper. I miei all’epoca abitavano in una traversa di via Casilina, viale Filarete, zona di Tor Pignattara. Quando mio padre era fuori per servizio o corsi di aggiornamento mia madre si trasferiva con me e mia sorella, nata due anni dopo, al porto di mare che era la casa dei suoi. L’ospitalità era il marchio di fabbrica. Ho ancora degli splendidi ricordi dell’ambiente scherzoso e allegro in cui si viveva. L’unico serio era mio nonno, forse perché privo dell’udito, forse perché cupo di carattere. Non i suoi figli, a parte mia madre che ha sempre avuto tendenze melodrammatiche. Ricordo bene i miei zii che staccavano le porte di alcune stanze per sistemarvisi su per la notte pur di poter ospitare parenti o amici. Qualcuno dormiva sul tavolo. Ricordo bene anche la grandi tavolate chiassose, uno degli zii più burlone degli altri e mia madre tra i bersagli preferiti delle bonarie prese in giro. Nato a Roma, sono stato accolto da questo ambiente vivace, coccolato da zii e zie: chi mi portava al mare con la scusa di potersi appartare con il fidanzato, chi mi portava a vedere la partita di pallone facendomi a volte provare a guidare la macchina appena comprata seduto sulle sue ginocchia.
Non c’era il benessere di oggi ma l’allegria, la voglia di stare insieme e soprattutto la speranza per il futuro migliore rendevano la vita forse più spensierata. Ho anche la sensazione che lo sviluppo tecnologico ci abbia reso meno liberi di come si era a quei tempi, quando il bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti oggi non era neanche immaginabile. Un paio di canali televisivi bastavano, poi c’era la radio. Si facevano le foto quando davvero importava e le si godevano davvero, 24 o 36 stampe dal rollino invece delle centinaia se non migliaia di immagini immagazzinate e spesso dimenticare nei cellulari e nei computer. La musica si ascoltava con calma, assorbendola davvero, a ritmi umani, dai dischi in vinile e dalle cassette poi. Giornali su web, blog, informazioni push non ci seppellivano ogni giorno di più, rendendo difficile tenere il filo degli accadimenti. Fra un po’ non leggeremo più dai libri ma dai tablet. Senza contare che il mondo interconnesso di oggi fa si che i moderni pubblicitari sappiano i nostri gusti in base alle pagine internet che visitiamo e a quello che “postiamo” sui social network. Non voglio fare il nostalgico, al limite voglio spezzare una lancia a favore dei teorici della decrescita felice, secondo cui i ritmi di consumo (e di vita?) degli anni 60/70 sarebbero l’ideale da perseguire per uscire dalla spirale dell’odierna crisi. Tutto questo discorso per dire che sono nato a metà degli anni 60 ed ho vissuto la mia infanzia nei primi anni 70 a Roma ed è allora che mi sono affezionato irrecuperabilmente alla mia città, con l’imprinting indelebile consentito da quelle tenere età.
Poi gli anni bui dei secondi anni 70, gli anni di piombo. I miei genitori hanno vissuto nel terrore che qualcuno se la potesse prendere con i figli di sbirro che eravamo io e mia sorella e così mio padre ha chiesto ed ottenuto il trasferimento nel (fin troppo) tranquillo Molise, un ritorno alle origini non gradito da mia madre ma accettato per la sicurezza della famiglia. Il mio primo distacco da Roma fu molto consenziente. In Molise ci si andava ogni estate e l’idea della vacanza era collegata a quei posti, alla casa dei nonni paterni. Una volta ripresa la routine scolastica, la nostalgia della nostra città si è fatta immediatamente sentire. Ma ci siamo divertiti tanto, noi bimbi di appartamento romano, a giocare a pallone nei cortili e per le strade, a suonare la chitarra con gli amici nelle sere tiepide d’estate, ad andare in giro per i boschi e le campagne, ad aspettare che passasse la locomotiva (ancora a vapore i primi anni!) della linea per la costa adriatica. Ma avvicinandosi la maggiore età il richiamo dell’avventura che promette una grande città, la più grande d’Italia, quella dove sono nato e di cui sono orgoglioso, si faceva sempre più pressante. La scusa era ottima: l’università. E così sono tornato, io per primo. Primo anno universitario da fuori sede nella mia città. Poi mi ha raggiunto il resto della famiglia, mio padre per ultimo, con motivazioni per il trasferimento stavolta forse meno convincenti. Appartamentino al primo piano sulla tranquilla Piazza di Villa Fiorelli, settore nord del quartiere Tuscolano, zona San Giovanni. Da lì potevo andare in centro a piedi, passando per Piazza Re di Roma, sull’Appia, a Porta San Giovanni e il Colosseo. Potevo andare a piedi anche all’università e mi capitava spesso, visto che molte volte tram e autobus si facevano desiderare. Ma appena laureatomi, i proprietari di casa ci fecero sapere di averne bisogno e fummo costretti a cercare altro. Mio padre ottenne l’assegnazione di un appartamento del suo ente di previdenza, palazzine appena ultimate nel quartiere di San Basilio, appena prima del Raccordo Anulare. Lo “sprofondo”! Così si indica a Roma una zona molto lontana, difficilmente raggiungibile. Io e mia sorella provammo l’utilizzo dei mezzi per raggiungere il centro: un bus e poi la metropolitana B. Altro che passeggiata! Restai lì con i miei per circa 15 anni, in parte anche tristi, in depressione per mancanza di lavoro, soldi, donne…
Ma fu lì che iniziò la mia risalita! Prima un lavoro da insegnante molto lontano da casa: al Cairo, in Egitto, dove insegnai matematica e scienze nella seconda superiore di un istituto tecnico salesiano da settembre a novembre 1998. Poi fuggii per tornare nell’amata Roma ed inseguire il mio sogno di fare quello per cui avevo studiato: il geologo. Immediatamente accontentato fui incaricato dei rilievi geologici per una galleria, ma, ancora, lontano da Roma, tra Emilia e Toscana. Rientravo ogni venerdì. Poi fu la volta dell’assegno di ricerca all’università di Roma Tre, dalla parte opposta di casa! Ma da allora non mi spiace mai dell’arrivo del lunedì, della ripresa della settimana lavorativa. Finalmente facevo quello che volevo, quello che avevo desiderato per anni. Ed ero a Roma! Fui anche invitato da una università del New Jersey ad andare da loro per un PhD! Cosa che non feci, ma conservo le amicizie che nacquero in quell’occasione, durante quello splendido agosto 2001 in cui mi sentii finalmente realizzato professionalmente e padrone del mondo. Mi pentii spesso di non essere tornato negli USA, di non essermi unito alla schiera di “cervelli in fuga” italiani in America. Anche perché poi iniziò il precariato universitario – in bolletta per mesi e mesi, o dovrei dire anni. Ma tornai negli USA per lavorare per un amico newyorkese. Esperienza durissima ma anche emozionante, in particolare perché sia io che lui quel fatidico dicembre 2004 iniziammo le relative storie con coloro che oggi sono le nostre mogli e madri dei nostri figli. Quella che poi sarebbe diventata mia moglie venne a trovarmi a New York, ci eravamo visti solo una volta poco prima che io partissi, in un locale di Roma nel quartiere Testaccio. Poi ci scrivemmo tante lettere elettroniche imparando a conoscerci prima di rivederci dopo quasi due mesi. Il primo bacio fu a Jersey City, difronte alla skyline di Manhattan illuminata dalla luna, in riva al fiume Hudson. Per poi continuare per tutto l’indimenticabile weekend al ponte di Brooklyn, Central Park, ecc. Roba da film! Ma era la mia vita, finalmente diventata degna di vivere. E’ per questo che dico che sono nato a Roma e rinato a New York. Al rientro, dopo altri 6 mesi, io e la mia compagna andammo a vivere nelle campagne a nord di Roma, nel sacrofanese. Fu la mia prima casa fuori dalla mia città. Poi per tre anni ancora vivemmo nel paese di lei, sempre in campagna, nella zona di Montefiascone. “Lavoravo” – si fa per dire – ancora a Roma Tre e facevo il pendolare. Poi la svolta del lavoro attuale, il mio “dream job” iniziale: geologo di una compagnia di ricerca idrocarburi. Seguì un primo riavvicinamento, di nuovo nel sacrofanese, nelle splendide campagne del Parco di Veio. Poco dopo l’incommensurabile ed indescrivibile esperienza della nascita di nostro figlio, a Roma, in via dei Gracchi, nel quartiere Prati. Non troppo distante, anzi adiacente, al quartiere dove poi avremmo vissuto per poco più di un anno, per poi fuggire precipitosamente, riamangiandosi tutti i discorsi fatti al ritorno in città. L’estate del 2013 abbiamo fatto una breve vacanza in Francia. Il rientro è stato traumatico: sporcizia nella stazione, evidente degrado tutto intorno, puzza di urina davanti al nostro bel portone di casa. Che demoralizzazione…
Quando ho visto il mio bambino tapparsi il naso per la puzza dei gas di scarico nel traffico nei pressi del Vaticano mi sono chiesto cosa diavolo stessimo facendo. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Rivedere le foto degli anni in campagna, i nostri volti sereni, il piccoletto che era libero di scorazzare, di saltare nelle pozzanghere in autunno, o correre sotto gli spruzzi degli annaffiatoi d’estate… Abbiamo sbagliato tutto? Avevamo delle buone ragioni. Ma cambiare idea è sano, la flessibilità è una cosa positiva. Chi non cambia mai idea mi spaventa di più. C’è chi ci prenderà per matti, ma la decisione è presa. Si torna a Sacrofano, vicini alla famiglia, una sorta di ritorno ai vecchi valori, un andare controcorrente in questo mondo frenetico che aborrisce la vicinanza dei genitori, che sono invece utilissimi nonni, fondamentali nello sviluppo sano di un bambino.
Roma, addio. Ti adoro, ma ti hanno ridotto proprio male. Le campagne del tuo nord sono splendide, un parco naturale tra le rocce vulcaniche i cui due soli centri urbani sono Sacrofano e Campagnano. Ad una mezzora c’è il lago di Bracciano nella splendida Trevignano. L’aria è fresca, le notti silenziose, gli odori sono quelli della natura. Porterò il mio piccoletto in giro per sentieri, a cogliere more, a visitare ruscelli, magari impareremo ad andare a cavallo. Roma, è stato bello, ti verrò a trovare spesso, ma devo pensare alla serenità ed alla salute mia e della mia famiglia.